Siamo a Padova. Sono piccola, avrò meno di 10 anni. Tengo stretta la mano della mamma. Lei è intenta a tenere me, mio fratello Alessio e il suo borsone del calcio, in un perfetto quanto precario equilibrio, di quelli che solo le mamme riescono a mantenere. Ho lasciato la cartella in macchina, non mi importa dei compiti.
Camminiamo a passo svelto. Alessio per fortuna non si deve cambiare, la mamma pensa sempre a mettergli il completino da calcetto prima di uscire di casa, per poi coprirlo adeguatamente per non fargli prendere freddo, soprattutto alla gola. Lo fa anche con me. Lei lo fa sempre.
Poi il flashback fa un balzo in avanti, e io mi ritrovo seduta sulle grandi gradinate del campo da calcio. Guardo Alessio fare i suoi esercizi, e mamma è vicino a me. Scambia qualche parola con le altre signore che hanno accompagnato i propri figli alla lezione. Io le guardo mentre parlano, gesticolano e ridono. Ammiro la mamma mentre riesce ad intrattenere una conversazione di qualsiasi tipo in maniera impeccabile, sorridendo e ascoltando al momento opportuno. La guardo incantata, e penso che da grande vorrei essere come lei.
Poi Alessio finisce. Mamma lo cambia, lo copre, e ci compra la merenda. Se chiudo gli occhi, sento in bocca il sapore di quei piccoli e soffici panini al latte, ripieni di qualcosa che, ancora oggi, non riesco a capire... No, un attimo. I panini appartengono ad un altro ricordo.
Non ha importanza.
Entrambi condividono la stessa felicità. La stessa spensieratezza. Gli stessi sguardi, gli stessi sorrisi.
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